Queste piccole farfalle.

Lo sapevate che la pioggia si ricorda le cose? Lo sapevate che immagazzina informazioni? Loro scostavano il velo dalla faccia, le loro bocche secche accennavano dei sorrisi sdentati, vi dico che è così dicevo, a volte mi puntavano un Kalashnikov, a volte mi invitavano nelle loro tende a mangiare carne croccante e a bere misture segrete.
Era il periodo in cui mi mandarono a fare il rappresentante di ombrelli nel deserto libico, li trovai lì, non mi ricordo da cosa scappavo ma probabilmente scappavo da me stesso, mi ricordo benissimo però che cosa cercavo, me lo ricordo benissimo.
La ditta aveva detto che era un buon lavoro, avevo accettato e loro mi avevano mandato nel deserto.
Mi ricordo che ai tuareg gli ombrelli piacevano, un capo tribù mi firmò un contratto per una fornitura, all’inizio ci si riparavano dal sole, avevano costruito delle armature di ombrelli da montare sui cammelli, schermature di ombrelli per le tende e per le aree dove riposavano, poi iniziarono ad usare gli ombrelli con una funzione rituale, una forma di selezione di casta, una notte sotto una distesa di stelle infinite mi invitarono a partecipare ad una specie di festa di Imajaghan, mi offrirono un Thè con dentro non so cosa ma quando mi svegliai era come se per una notte tutto il deserto mi fosse scivolato nel cuore. La mia anima era rimasta vuota, uno stregone disse che dovevano avermela rubata, io sapevo chi ce l’aveva, gliel’avevo regalata io.
Fu più o meno quello il periodo in cui conobbi i vecchi punk di Teheran, era gente che aveva deciso di vivere da punk durante la rivoluzione iraniana del 79, gente che aveva fatto a sprangate con le milizie Basiji, che si era accoltellata con i mods e i metallari durante le retate dei guardiani della rivoluzione, gente che aveva creduto in forme impazzite di anarchia, nella rottura di tutti i suoni, nella sregolatezza di un amore feroce.
Il leader del gruppo si faceva chiamare lo scorpione, aveva una barba lunga e biancastra e la faccia di uno che aveva visto il diavolo più di una volta e non aveva ancora finito, sembrava che la faccia gli fosse stata scavata da fiumi antichissimi, sembrava che gli occhi avessero pianto tutte le lacrime del mondo. Mi comprarono tre ombrelli e mi offrirono un acido, poi mi raccontarono che erano qua per le poesie di Mahmoudan Hawad, volevano farci un pezzo punk, volevano vedere dove erano nate, come si erano formate, da quale forma intangibile uscissero fuori, volevano sentire l’odore dei dromedari e annusare la pelle bruciata dal sole del mattino, stiamo combattendo, dicevano, stiamo combattendo la nostra controJihad.
Ecco, il progetto era un po’ questo, scatenare una controrivoluzione punk che invertisse il processo di distruzione del medio oriente, ci sono tutti i segni, diceva lo scorpione, dietro di lui la ragazza con gli occhiali scuri e la tuta di pelle sembrava danzare in universi paralleli, inseguire falene invisibili che inseguivano pensieri invisibili, c’era un tedesco, c’era un  negro albino che avevano salvato dagli stregoni della mafia nigeriana, c’era un francese omosessuale o tuttosessuale che mi invitava continuamente nella sua tenda promettendomi di farmi fumare l’oppio più potente di tutto l’Afghanistan, l’oppio dei Re di persia e dei Djin di Salomone, c’era un giapponese con la testa tinta di giallo che aveva militato nell’ultrasinistra di Kobe, c’era la vecchia guardia punk iraniana ed un miscuglio di nuove forme e colori, di creste che bruciavano nella sabbia, di borchie e giacche di pelle che ciondolavano dai dromedari.
È la fine dei tempi, diceva lo scorpione, il mondo non ha futuro, è questo il momento in cui scoppiano le rivoluzioni. La giacca mi stringeva il collo e la cravatta mi soffocava, i pantaloni si appiccicavano alle gambe con il sudore bollente mentre la sabbia si faceva strada come un insetto nei mei calzini dentro alle mie scarpe, fino a piagarmi i piedi, la carne, con piaghe che nemmeno i rimedi tuareg riuscivano a curare.

Mi ricordo che una notte suonarono il loro pezzo. Il cielo traboccava di stelle, quasi mi si schiantassero addosso, potevi vedere chiaramente ogni singolo frammento di Dio incastrato nel buio, ogni luce lontana, respirare ad una intensità impossibile come se il deserto fosse l’estensione dei miei polmoni, Io non ho paura della morte, diceva il pezzo mentre la musica del tar saliva nel cielo, si mischiava alle nostre ossa, una melodia dolce e ossessiva, un punk islam, una forma nuova di sonorità,

non ammiro affatto la vita.
Niente mi turba, tranne queste piccole farfalle
svanite sulla loro rosa d’amore.

Lo scorpione cantava e la sua voce entrava nella sabbia e nel sangue, mi scivolava nella gola e nelle narici e io volevo te, desideravo te, ti cercavo nelle stelle e ti pensavo nelle piccole farfalle, le vedevo assemblarsi sciamare, prendere la forma delle tue spalle, le linee del tuo collo, la figura delle tue gambe che sapevo a memoria eppure perdevo nel buio, nella notte, nel sapore di metallo dell’acido che saliva, poi sprofondavo nelle danze tuareg, negli uomini blu che si accendevano davanti ai piccoli fuochi che zampillavano dai bracieri, nel respiro affannoso degli animali, nell’urlo lontano di una donna partoriente, seguito dal silenzio, seguito dal primo pianto della bambina che risuonava dall’ultima tenda dell’accampamento come a ricordarci qualcosa, qualcosa che avevamo dimenticato,
forse la vita.

Nella mia testa c’è una bomba, diceva, non c’è per me altro punto d’arrivo che la stella della mia follia, e intanto il cuore mi si riempiva di te, dal rosso si tingeva del verde dei tuoi occhi, del colore lattiginoso della tua pelle liscissima, sentivo il tuo sapore in qualche lato lontano del mio cervello, in qualche angolo del tempo, in qualche angolo della mia anima, mi ricordavo il tuo corpo accendersi nella luce grigia del giorno, il tuo sorriso travolgermi, il suono della tua voce vibrare dentro di me, i tuoi occhi diventare seri e poi ancora brillare di felicità, farsi profondi come laghi di qualche pianeta extrasolare, laghi senza una fine nel cui fondo nuotano animali bellissimi ed eleganti, creature immense che si muovono pacifiche e lente come le onde o il vento, mi manchi da morire, diceva la mia testa, come ci sono finito qua? Mi domandavo, la voce dello scorpione saliva, la forma della tua mancanza prendeva forma nel mio cuore come un immenso spazio vuoto, un vuoto incolmabile che aveva esattamente il tuo peso, la tua consistenza, il tuo taglio di capelli, allungai una mano verso il cielo pensando di riuscire a raggiungerti, di riuscire a sfiorarti, ricordo che afferrai qualcosa, forse un cuore, una stella, forse la galassia intera, mentre la musica raggiungeva il suo apice dal mio cuore esploso uscirono fuori milioni di parole che avrei voluto dirti, pensai che forse ti avrebbero raggiunta, magari col vento,

magari dentro alla pioggia.